Chi si loda si imbroda: il sottile confine fra personal branding e autoreferenzialità

Da diversi mesi la mia frequentazione dei social si è rarefatta. O, meglio, è cambiato il mio modo di interagire con i post. Forse per questo, come ogni volta che ti allontani di un passo da una immagine, ho incominciato a “vedere” più chiaramente l’insieme di ciò che viene comunicato.

Spesso mi sono accorta di non riuscire più a leggere o ascoltare messaggi che, in qualche modo, fatico a percepire come un valore aggiunto al mio pensare, agire e vivere.

Sono diventata allergica alla autoreferenzialità – sarà perché “chi si loda, si imbroda?” – ma, nello stesso tempo, mi sto chiedendo in che modo si possa curare il proprio “brand personale” evitando di scadere nello sfrenato amore di sé.

Il dubbio mi viene perché se da un lato riscontro un “eccesso di ostentazione” da parte di alcuni, ci sono molti altri di cui conosco le azioni davvero meritorie che non le raccontano per timore di vantarsi o perché sottovalutano la portata dei progetti che realizzano. Se ne parlano, lo fanno sottovoce, quasi temendo di cadere nel peccato di superbia.

Comunicare senza esaltazioni

Mi riferisco, ad esempio, a molti colleghi del mondo Yoga della Risata che, quasi sempre volontaristicamente, ogni giorno promuovono iniziative a contatto con persone che stanno attraversando fasi difficili di vita – malattia, disabilità fisiche o disagi emotivi – e ai quali per qualche ora fanno ritrovare la capacità di ridere in modo incondizionato.

Per qualche tempo, queste persone sperimentano lo straordinario potere e gli effetti, anche sul piano fisico, del ridere e ritrovano maggiore serenità e più forza per affrontare i loro problemi.

Ora, la definizione più efficace di “personal branding” che ho rintracciato nel web dice “processo per identificare, coltivare e comunicare nella maniera più efficace possibile la ragione per cui un cliente, un datore di lavoro o un partner ti sceglie” (dal sito www.personalbranding.it).

Si tratta di una necessità fondamentale, dunque, se vuoi farti conoscere e apprezzare in campo professionale, anche quando si tratta di volontariato.

Il punto di partenza riguarda dunque sé stessi, le proprie qualità e capacità in un determinato ambito ma anche i propri valori autentici, quelli che esprimiamo non solo a parole ma soprattutto nel nostro quotidiano.

Sarebbe quantomeno pericoloso promuovere una immagine di sé che poi trova scarsi riscontri nella realtà. Con grande facilità si rischia di essere sconfessati da chi vive attorno a noi e diventa testimone dei nostri comportamenti contraddittori. Nulla è virale quanto il passaparola.

Nello stesso modo, però, non dare visibilità ai buoni e concreti risultati che riusciamo a conseguire può togliere forza alla nostra azione e non la valorizza.

Parlare molto delle “cose”

La soluzione? Io l’avrei trovata in questa frase di Enrico Berlinguer:

Bisogna parlare (comunicare)
poco degli altri
molto delle cose
niente di sé
Enrico Berlinguer

Dunque, il mio suggerimento è parliamo e scriviamo delle cose che realizziamo. Raccontiamo – senza esaltazioni ma in modo concreto – come lo abbiamo fatto, citiamo i numeri e i tempi, i risultati ottenuti da ogni punto di vista e come pensiamo di fare meglio in futuro. Rendiamoci disponibili a mettere a disposizione di altri il frutto della nostra esperienza, creiamo una fitta rete di relazioni e di positiva interdipendenza.

Evitiamo di parlare degli altri se non per ammirarli e citarli positivamente. Lo scranno del giudice è riservato a chi deve giudicare per professione e, tra l’altro, lo fa solo in un certo ambito.

Lasciamo che siano gli altri a parlare di noi, ad apprezzare ciò che abbiamo realizzato ricordando che il primo e più importante giudizio che riceviamo è sempre quello delle persone che, grazie al nostro impegno e al nostro entusiasmo, sentono per qualche tempo più lieve il loro peso di vita… vi pare poco?

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